Medicina e Filosofia, insieme per una cura consapevole e responsabile in un mondo in evoluzione
Medicina e Filosofia, insieme per una cura consapevole e responsabile in un mondo in evoluzione
10 ottobre 2024

Appunti della lectio magistralis di Massimo Cacciari al San Gerardo del 27 settembre 2024. Testo non rivisto dall'Autore
La Filosofia è fondativa della Medicina a livello di linguaggio; i Presocratici, da Ippocrate a Platone, l’hanno guidata fuori dal mito e condotta al lògos.
L’esserci è un complesso di elementi che vivono in armonia e, quando questa manca, spesso subentrano problemi, ci si ammala. Il medico è colui che armonizza gli elementi, è la mente misurante, colui che misura le dimensioni e il rapporto degli elementi, degli istinti. Il medico li commisura e cerca di unirli, di armonizzarli: téchne – intesa come arte medica, tecnica medica, non attiene quindi all’empirico. La filosofia di Platone, con la dialettica, mette insieme elementi diversi: è una composizione di soggetto/oggetto/verbo/predicato, una connessione di diversi elementi in base ai principi della logica; quindi, per commisurare gli elementi occorre un ponte tra gli elementi. Una Simploché, ossia una connessione di diversi elementi in base a dei principi che potremmo definire logici.
La stessa cosa avviene appunto nell'arte medica, nella techné medica, in cui non si deve soltanto rendere conto dei diversi elementi che compongono la physis, la natura del nostro esserci, ma si deve vedere la loro Simploché, la loro connessione “devi vedere la connessione, non puoi limitarti soltanto ad elencarli, devi riuscire a commisurarli”. In questo si realizza il perfetto parallelo tra medicina e filosofia: ogni volta si deve cercare un medio, un ponte.
In filosofia questo elemento si chiama metaxù, l'elemento che connette le diverse parti di un tutto, poiché non c'è nessun tutto che non sia composto da parti, non c'è un tutto che non abbia, al suo interno, delle distinzioni, delle differenze.
Le differenze comportano necessariamente il pericolo della dis-unione.
In filosofia si dice la Psyché, il principio che anima l'esserci, ed è composto essenzialmente da due dimensioni; in filosofia, non c'è nessun dualismo ed è per questo che è così vicina alla medicina. La Psyché, come complesso di umori e di elementi, essenzialmente è ciò che ci anima ed è distinguibile in due dimensioni: una sensitiva-vegetativa, che a sua volta al suo interno andrà definita nelle diverse parti, e una parte intellettiva. Non c'è dubbio che fin dall'inizio appare la straordinarietà, al medico come al filosofo, di quella parte della natura che siamo noi. Qual è l'altro animale dotato di lògos?
Gli animali emettono segnali, non hanno un linguaggio; il linguaggio appartiene soltanto alla specie umana, che si declina in relazione, in rapporto. La dimensione percettivo sensitiva, vegetativa, in tutte le sue sfaccettature e la dimensione intellettiva; quindi, non può sussistere alcuna dimensione intellettiva non correlata alla dimensione corporea fisica: nessuna dimensione intellettiva può fare a meno del cervello, non c'è nessuna attività intellettuale che possa prescindere da questa base biologica; pertanto il campo fondamentale della medicina, rivolta alla cura del nostro esserci, dell'animale dotato di logos, è stato lo studio del cervello.
La parte corporea, sensibile, è assolutamente inscindibile dalla parte intellettuale; il che non vuol dire che io non possa studiare quella parte piuttosto che l’altra, ma bisogna sempre avere coscienza che quando studi una parte, studi una parte e non il tutto. Inoltre, bisogna sempre avere coscienza che quella parte che stiamo studiando è connessa al tutto perché, se manca questa coscienza, non sarò mai un medico, nel senso etimologico del termine.
Essere un medico significa, in primis, misurare una parte nella sua connessione al tutto: commisurarla.
Quindi, l'impegno della Medicina e della Filosofica sarà quello di combattere ogni visione dualistica, da un lato bisogna rifiutare lo spiritualismo, ma dall'altro occorre rifiutare anche ogni riduzionismo.
Se l’essere umano è costituito da questo complesso sensibile/vegetativo e intellettivo, dobbiamo tenere ferma questa distinzione, non possiamo pensare di poter ridurre l'attività intellettuale ad una questione fisiologico-biologica perché non vi sarà nessun rapporto di causa-effetto in senso deterministico, tra la mia base, il mio fondamento neuronale e l'espressione dei miei pensieri, ossia la mia attività logico-intellettuale.
Un generico spiritualismo e un generico materialismo sono due vizi assolutamente opposti e complementari, soprattutto sono due vizi logici, dimostrano cioè una mancanza di logica. Questa distinzione può sempre lacerarsi, spezzarsi, sebbene nell’essere umano sia una distinzione che comporta l'inscindibilità delle due dimensioni: io devo mantenere una prospettiva che escluda sia il pericolo spiritualista sia il pericolo materialista. Sono entrambe un'applicazione logicamente sbagliata, vetero deterministica del principio di causa-effetto.
È impossibile conoscere qualsiasi essere, ma in particolare questo essere dotato di logos che noi siamo e che è l'oggetto di studio del medico, facendolo a pezzi, ossia ritenendo che sia un insieme di pezzi.
In ogni essere c'è vita, questo è un altro elemento fondamentale della filosofia e della stessa filosofia platonica: in ogni elemento, in ogni essente c'è vita. Non vi è nessun essente che sia inanimato, il dualismo animato-inanimato non esiste.
Dal punto di vista fisico-scientifico, ogni essente è energia e quindi l'essenza dell'essente è energia impalpabile e inosservabile. Questo i Greci, Platone e i metafisici, lo conoscevano benissimo; ogni essente ha una mente se per mente intendi vita, capacità - potenza di vivere, ormai ci sono studi contemporanei bellissimi che hanno mostrato come si possa parlare di un sistema nervoso della pianta.
La fisica e la fisiologia contemporanea hanno riscoperto tantissime cose intuite da filosofi, grandi filosofi della storia della nostra cultura e della nostra civiltà, da Platone a Plotino, fino a Leibniz.
Plotino dice che nella natura non vi è nulla di a-physicos, nulla di inanimato; la distinzione tra animato e inanimato è una visione della fisica classica, cartesiana. L’oggetto inanimato è invece quel soggetto cogito che noi siamo, ma l'universo è un composto indefinibile di menti che si relazionano le une alle altre.
La scienza è molto avanzata in termini di studio della ricchezza di relazioni che connettono tutti gli essenti; siamo parte di questo tutto, sarebbe un errore analizzare una parte senza proiettarla sullo sfondo del tutto, anche se a questo fondo non arriveremo mai, come non arriveremo mai ad una teoria del tutto.
La scienza mira a una teoria del tutto, quello che conta non è il successo ma il processo, perché lì scopriamo una serie infinita di cose, procedendo verso una teoria del tutto. Così fa anche la medicina, come per il pellegrino, quello che conta non è arrivare a Roma, è mettersi in marcia. Il pellegrino è colui che cammina, non quello che arriva: camminando costruisci il tuo cammino. Quindi, quello che veramente accomuna Filosofia e Medicina è tutto questo: la straordinarietà del nostro esserci è riconosciuta come parte della physis, come elemento straordinario nella natura, connesso alla totalità degli altri enti; questa conoscenza della parte si proietta su questo fondo.
Avere cura di quell'essente che siamo, significa curare tutti i significati del termine, perché non solo saprai curare meglio perché ne riconosci meglio la specificità e la connessione con il tutto in uno, ma ne sei anche curioso.
Cura ha la stessa radice di curiositas, se non continui ad essere curioso dell'ente di cui hai cura, magari lo curerai bene oggi ma te ne disamorerai; quell'ente di cui hai cura deve essere per te un enigma, un mistero da continuare ad indagare, non potrai mai credere di saperlo, perché diviene nell’epigenetica. La nostra evoluzione è anche culturale; oggi possediamo sempre di più i mezzi per intervenire nella nostra evoluzione.
Altro aspetto essenziale del rapporto tra Filosofia e Medicina è che quest’ultima è essenzialmente ermeneutica, nel senso più tecnico del termine; il medico ha a che fare con dei sintomi “ciò che appare” che sono segni che vanno tutti interpretati, delle apparenze, non viene presentata la cosa kantianamente in sé, che rivela qualcosa di essenziale. Apparenze che sono rivelatrici e che, quindi, vanno interpretate; questo sforzo di interpretazione di ciò che appare è il profondo che sta nell'apparire.
Molte grandi civiltà orientali ritengono che l'apparire sia inganno, che non abbia nulla a che fare con la realtà. Una cultura di questo tipo non potrà mai dar vita ad alcuna medicina.
La medicina, come la intendiamo noi, è fondata su un principio propriamente filosofico-metafisico completamente diverso: l'apparire è qualcosa che ha essenzialmente a che fare con la realtà ma per giungere alla realtà, bisogna interpretare l'apparire; l'apparenza rivela, principio fondamentale dell'Ermeneutica che accomuna in toto Filosofia e Medicina. È questa una prospettiva filosofica assolutamente comune, il filosofo è colui che interpreta i segni di una cultura, che possono essere i più diversi, dalla religione, all'arte, all'etica, all'organizzazione politica, dell'essenza del nostro esserci.
Oggi siamo a un punto chiave che ci responsabilizza tutti, di nuovo insieme, sia medici che filosofi, se siamo d'accordo con questa impostazione generale, anti-dualistica, antispiritualistica, antimaterialistica; oggi però ci troviamo di fronte a sfide che non erano neppure concepibili una o due generazioni prima, ovvero allo straordinario sviluppo dei saperi scientifici in parte collegati anche a una dimensione filosofica.
Noi, il soggetto, fino ad oggi il cogito, l'ego cogito che ha pensato queste trasformazioni, che è intervenuto sulla natura con tutti i suoi potenti, con sempre più potenti strumenti, per governarla, manipolarla, trasformarla, è diventato oggetto della tecnica.
Questo è il salto culturale antropologico straordinario dentro cui ormai siamo.
Noi possiamo ora, per la prima volta, intervenire proprio tecnicamente nella costituzione fisico-biologica del nostro esserci. Noi possiamo venire ingegnerizzati, possiamo intervenire sul nostro DNA e trasformarlo a nostro piacere. Questo pone problemi etici, sociali, politici di ogni genere e di straordinaria portata.
Questa grande rivoluzione antropologica si accompagna ad altri processi di salto tecnologico analoghi, che stanno tutti sullo stesso piano di queste innovazioni incredibili, straordinarie; successo incredibile della nostra mente. Rileggendo le grandi utopie tecnologiche, “La nuova Atlantide” di Francesco Bacone, dove gli abitanti sono giunti a creare nuove specie di animali e piante, avendo una padronanza totale della natura, si evince come la loro mente, dotata di logos, sia riuscita a dominare completamente l'evoluzione delle altre cose.
Ora siamo invece nella condizione di determinare la nostra evoluzione, di trasformare i caratteri e renderli ereditari. Questo pone un problema che riguarda la scienza medica, la ricerca, anche nelle fasi applicative di queste straordinarie innovazioni e la filosofia, non come una disciplina specifica ma come una sorta di mestiere, in quanto ognuno di noi è anche filosofo.
Ogni individuo è costretto a riflettere su ciò che fa, se lo fa consapevolmente, ovvero sul senso di ciò che fa, sulla storia di ciò che fa e sulla destinazione che assume ciò che fa.
Il come dobbiamo comportarci rispetto a questo salto antropologico pone delle responsabilità colossali, responsabilità che saranno anche politiche e amministrative, che prima di tutto riguardano ogni scienziato che ragiona su ciò che fa, sulla storia e sul senso di ciò che fa; quella filosofia che dovrebbe essere filosofia di ognuno di noi, a prescindere che abbia letto Platone. Ogni scienziato, in particolare, deve porsi la questione di come si voglia collocare rispetto a questo salto: come tenere una distinzione tra l'aspetto propriamente curativo, medico-sanitario, e quello eugenetico. La prospettiva della domanda si colloca nell’ individuazione del limite alla tecnica moderna contemporanea: “puoi farlo, fallo”; la tecnica-scienza moderna contemporanea caratteristicamente si è mossa in termini di eliminazione del limite, come una straordinaria avventura.
Giunti a questo punto, il limite non può essere calcolato attenendosi ad un registro amministrativo o politico estraneo alla coscienza del singolo medico-scienziato-filosofo. Non possiamo appellarci a valori general generici per tracciare un limite. Soltanto la coscienza del medico-scienziato può stabilire dove possa essere collocato e tenerlo fermo nella sua attività, nella sua impresa scientifica di ricercatore, di medico.
L'appello alla coscienza del singolo, questa dimensione di responsabilità etica, è diventata impellente nel salto che stiamo vivendo, per questo campo e per altri. Poniamo la questione dell'intelligenza artificiale di cui tutti parlano, un conto è l'intelligenza artificiale che ci libera da un lavoro non necessario, ripetitivo, meramente calcolatorio, ma si accentua anche ogni forma di disuguaglianza: non si creano uomini più liberi ma dei disoccupati.
Rispetto a questo argomento è evidente come si sia di fronte a un bivio rispetto alla responsabilità, una strada o l'altra, occorre lavorare perché tu prenda la strada “buona”, piuttosto che quella cattiva.
Nel campo della genetica e della ingegnerizzazione della genetica è ancora più evidente il dramma, nel senso etimologico del termine; il dramma non vuol dire “pianti” ma fa riferimento all’etimologia greca: l'eroe che si interroga su “cosa fare”, come Edipo che si chiede se proseguire nella ricerca sulla propria identità, o se seguire il consiglio della moglie Giocasta, che suggeriva di ritrarsi. Lo scienziato è nella situazione in cui deve cercare di capire chi è e come si colloca in questo salto culturale, che ha dimensioni antropologiche.
Ognuno è chiamato a rispondere per sé stesso all’interrogativo su “chi sono, cosa faccio e cosa voglio fare in questa realtà” senza prima conoscere, come il medico e come il filosofo ai loro inizi, quali sono gli elementi della natura.
La medicina e i grandi clinici sono dotati di potenza antidogmatica; un fisico può ritenere che la sua legge in qualche modo valga sempre, sia perfettamente ripetitiva, perché grosso modo così stabiliscono le leggi della fisica, perché l'esperimento è ripetibile; la fisica contemporanea quantistica sa bene che nessun esperimento è propriamente assolutamente ripetibile. Nel caso del medico c'è qualcosa di irripetibile da paziente a paziente e questo implica un atteggiamento di dubbio radicale: prima di esprimersi nei confronti di qualsiasi soggetto, quindi, se c'è una disciplina che è proprio fisiologicamente antidogmatica e non può fondarsi su alcun semplice pregiudizio è proprio la medicina.
La medicina ha strutturalmente a che fare con il singolo, prima ancora di occuparsi della connessione tra le sue parti e di vederne ogni parte. Questo non vuole essere un discorso anti-specialistico, lo specialismo va bene nella misura in cui quanto più conosco la parte, tanto più riconosco ma, tanto meglio, conosco la parte, tanto più sento il bisogno di collegarla all'intero. Procedendo con questo discorso: tanto più si è curiosi rispetto alla relazione della parte con il tutto, tanto meglio ci si potrà prendere cura della persona.
Il medico deve essere in dialogo perché, come è necessaria la connessione tra le parti per intendere meglio quella specifica patologia, il medico dovrà essere in colloquio con il paziente, perché altrimenti non può svolgere la sua ermeneutica su ciò che appare, sui sintomi che appaiono e che lui, pensa, siano rivelatori.
La parte è in una connessione necessaria al tutto, quindi sarebbe totalmente illogico non riconoscere la necessità della connessione del medico con il soggetto paziente. Il colloquio non è qualcosa che viene dopo, un ornamento da cui potersi sentire esonerati. Non è una questione di gentilezza, il medico che non parla non ha capito la propria Ars Téchne; forse egli pensa di averla compresa, soltanto perché sa che le parti si connettono, ma non basta. Il medico si deve connettere e nel salto tecnologico-antropologico sarà ancora più importante. Quando il paziente arriverà a chiedere interventi sul genoma, o quando solleverà questioni che costituiscono problemi etici, come la buona morte, il dialogo costante sarà necessario sulla scena del dramma. Non verrà richiesto solo un consiglio, il medico dovrà porsi in base ai propri principi etici davanti ad alcune esigenze, ad alcune richieste, ad alcune istanze; tutto ciò è drammaticamente affascinante per la scienza medica attuale nel suo rapporto con la ricerca di base ma soprattutto, come mi auguro di avere in qualche modo suggerito, nel senso che probabilmente, mai come oggi, è davvero necessario concepire la tecnica medica, l'arte medica in un rapporto non esterno, è il riconoscere il carattere filosofico della propria disciplina, il carattere etico-filosofico. Soltanto riconoscendo la propria filosoficità potremo affrontare, con qualche speranza, il salto tecnologico senza andare incontro a grandi disastri.
La tecnica oggi, semplicemente scatenata, che fa tutto quello che può, potrebbe condurre davvero ad un “Oltreuomo”, che non è l'Übermensch del povero Nietzsche, perché l'Übermensch era, tutto sommato, oltre l'uomo dell'invidia, del risentimento, l’Oltreuomo del sottosuolo. Il rischio consta nell’oltreuomo, nel senso dell'eliminazione dell'umanità e, anche da questo punto di vista, è la medicina forse la disciplina che ci può maggiormente aiutare a essere coscienti del pericolo e a superarlo. Grazie