Segni di sofferenza, segni di umanità
Segni di sofferenza, segni di umanità

Dai Crocifissi dell’arte alla Croce di Carlo Acutis
In occasione delle festività pasquali e della canonizzazione di Carlo Acutis (1991-2006), che si terrà domenica 27 aprile a Roma in piazza San Pietro, a conclusione del Giubileo degli adolescenti, la Fondazione IRCCS San Gerardo dei Tintori ha deciso di ricordare la figura del nuovo santo con questa esposizione.
Carlo, colpito improvvisamente da una leucemia fulminante, è stato ricoverato in questo ospedale il 9 ottobre 2006. Dopo soli tre giorni, il 12 ottobre, è deceduto, affrontando la malattia con una serenità straordinaria e lasciando una profonda impronta in questo luogo e in chi lo ha assistito e ancora lavora qui. Anche prima della malattia, Carlo era noto per la sua dedizione alla carità, al sostegno dei più fragili e alla vicinanza a chi è solo.
La nostra Fondazione, facendo propri questi valori, vuole offrire un’occasione di riflessione sulla sofferenza e la malattia che vengono affrontati, come da Carlo, da chi vive ogni giorno questi spazi: i nostri medici e operatori sanitari, tutto il personale, i pazienti, le famiglie, i caregiver.
L’ospedale è un luogo di relazione, cura e sacrificio. Il Crocifisso, nella storia dell’arte, è stato spesso il simbolo e la sintesi di tutto questo: testimonianza di un amore capace di empatia, dono totale di sé e condivisione del dolore.
Carlo lo guardava così, e appena ricoverato disse ai suoi genitori che era pronto a offrire le proprie sofferenze. Questa mostra vuole essere l’occasione per tutti, come spesso Carlo ripeteva, di «spostare lo sguardo dal basso verso l’alto. Basta un semplice movimento degli occhi».
I crocifissi qui esposti sono tratti dalla mostra “La civiltà del crocifisso” gentilmente offerta da Giuseppe Colombo (già sindaco di Cernusco sul Naviglio).
Ne sono stati scelti alcuni connessi a istituzioni ospedaliere e di carità, altri che facilitano l’immedesimazione grazie alla presenza di persone comuni coinvolte nelle scene, e altri ancora, più moderni, che mostrano come questo soggetto sia stato affrontato anche da artisti del Novecento.
Chiude l’esposizione un dono fatto alla cappella del nostro ospedale: la “Croce di Carlo”, realizzata dall’artista contemporanea Nicoletta Staibano proprio in onore di Carlo Acutis. Una croce, come sottolinea l’artista, «nuova, moderna, non statica: infatti non ha un braccio uguale all’altro perché Carlo ci insegna ad essere originali e non fotocopie».
Curatrice Artistica: Maddalena Mongera, Fondazione IRCCS San Gerardo dei Tintori
Comitato Promotore: Cultural Advisory Board, Fondazione IRCCS San Gerardo dei Tintori - Claudio Cogliati (Presidente), Loredana Almagno, Filippo Facco, Pierfranco Maffé, Gabriella Mantovani, Roberto Mazzagatti, Paolo Perego, Michele A. Riva, Erik Pietro Sganzerla, Vittorio A. Sironi, Veronica Todaro, Ernestina Vismara
Opere esposte:
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Simone Martini, Croce della Misericordia di San Casciano, 1321-22
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Andrea del Castagno, Crocifissione, Affresco, 1440/41, Ospedale di Santa Maria Nuova
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Gaudenzio Ferrari, Crocefissione, 1513, Santa Maria delle Grazie a Varallo Sesia
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Matthias Grünewald, Crocefissione, Kunsthalle, Karlsruhe, 1523-24
1. Cimabue, Crocifisso di San Domenico ad Arezzo, 1270 | |
| La Basilica di San Domenico custodisce una delle opere più preziose della storia dell’arte medievale: il “Crocifisso” del pittore Cenni di Pepo, meglio conosciuto come Cimabue. Quest’opera è considerata un capolavoro, perché per la prima volta si studia in modo tentativamente realistico l’anatomia del corpo di Cristo, che inizia a diventare tridimensionale: è molto inarcato a sinistra e la muscolatura è dipinta in ogni dettaglio, indice di un artista che conosceva bene l’anatomia del corpo umano. Inoltre, Cimabue sceglie l’iconografia del “Christus patiens”, che soffre, con la testa reclinata, debole, appoggiata sulla spalla. Era da pochi decenni che i pittori avevano iniziato a rappresentare Cristo sofferente e con gli occhi chiusi, sulla Croce, anziché con gli occhi aperti, vivo e trionfante, com’era tipico della tradizione bizantina. Qui Cimabue vuole esprimere il sentimento, il dolore, la sconfitta della morte. Il Crocifisso della Basilica di San Domenico presenta inoltre le figure dei due “dolenti” a mezzobusto, alle estremità del braccio orizzontale della croce. Entrambi – la Madonna a sinistra e san Giovanni Evangelista a destra – poggiano la testa nella mano in segno di sofferenza. Tutto è prezioso: le sottili striature dorate delle vesti dei personaggi rilucono d’oro. Sopra alla testa di Gesù, nella cimasa, si legge la classica scritta in latino “Hic est Iesus Nazarenus Rex Iudeorum”, ovvero “Questo è Gesù Nazareno re dei Giudei”, solitamente abbreviata con l’acronimo I.N.R.I. Al di sopra si nota la clipse circolare, con il Cristo benedicente, risorto, ancora a mezzobusto: è un anticipo della resurrezione, un suggerimento che la morte non è definitiva. La parte della tavola sagomata che va dal torace ai polpacci è arricchita da un raffinato motivo geometrico, prezioso come il mantello di un re. Alla base della croce non ci sono figure, ma solo i rivoli rossi di sangue che cadono dalle ferite provocate nei piedi dai chiodi: il pittore vuole restituirci, a suo modo e come può, tutta la realtà del sacrificio. I colori usati dal maestro toscano nell’opera giovanile sono brillanti. Con la sua intensa opera Cimabue mirava a stimolare le emozioni dell’osservatore, aumentandone il senso di compassione e partecipazione al dolore di Cristo. Non è un caso che la tavola fosse stata commissionata dai frati Domenicani, che assieme ai Francescani e agli altri ordini mendicanti nati del Duecento guardavano a tutta l’umanità di Cristo. |
2. Giotto, Crocifisso di Padova, 1304 | |
| Questa croce sagomata, dipinta da Giotto per la Cappella degli Scrovegni a Padova proprio mentre affrescava le pareti, è un’opera d’arte davvero minuziosa e commovente. Sebbene sia di legno, è completamente ricoperta di pittura e oro, rendendo invisibile il materiale semplice che la costituisce. La croce brilla di tre speranze: la speranza che la morte di Gesù, raffigurato al centro, crocifisso, morto, con il capo abbandonato e reclinato, non sia la fine, ma un passaggio; la speranza che il dolore della Madonna e di san Giovanni, rappresentati ai lati della croce mentre piangono disperati, si trasformi in consolazione; la speranza che il volto lieto del Padre, dipinto in cima alla croce mentre benedice chi guarda, sia vittoria sulla morte, sulla tomba in basso, da cui emerge il teschio di Adamo, in attesa della resurrezione. Guardandola, ci si accorge che, stranamente, il legno della croce non è bruno, come si aspetterebbe, ma è blu. È stato dipinto con lo stesso pigmento usato da Giotto per la volta della Cappella degli Scrovegni: il blu di lapislazzuli, una tinta più preziosa dello stesso oro, che simboleggiava, nel medioevo, purezza e divinità. L’uso di questo colore non è solo estetico: è un messaggio del pittore, che ci invita a vedere nella fragilità un riflesso di bellezza e nella sofferenza un orizzonte di senso. Un inno letto nella notte di Pasqua, passaggio tra la morte della Croce e la Resurrezione dell’alba, dice: «Chiunque è amico venga qui, goda di questa solennità bella e luminosa; il servo d’animo buono entri gioioso nella gioia. Chi ha faticato nel digiuno, goda ora il suo denaro. Chi ha lavorato, riceva oggi il giusto salario. Chi è arrivato, celebri grato la festa. Chi ha tardato, si avvicini senza esitare, non tema per la sua lentezza: il nostro Re è generoso e accoglie l’ultimo come il primo. Dà all’uno e si mostra benevolo con l'altro. Accoglie le opere e gradisce la volontà. Onora l’azione e loda l’intenzione. Entrate dunque tutti nella gioia. Ricchi e poveri, danzate in coro insieme. La mensa è ricolma, deliziatevene tutti. Nessuno pianga le proprie colpe, perché il perdono è sorto dalla tomba. Nessuno abbia paura della morte, perché la morte del Salvatore ci ha liberati. Stretto da essa, egli l’ha spenta. Dov’è, o morte, il tuo pungiglione? Dov’è, o ade, la tua vittoria? È risorto Cristo, e tu sei stato precipitato. È risorto il Cristo, e regna la vita. È risorto il Cristo, e nelle tombe non ci sono più morti». Questa opera d’arte diventa così un invito a guardare oltre il dolore, a scorgere, anche nei momenti più bui, una luce. Un invito che risuona con forza in un luogo di cura come l’ospedale, dove ogni giorno pazienti, personale sanitario e famiglie affrontano prove difficili, e dove ogni gesto può contenere una speranza. |
3. Simone Martini, Croce della Misericordia di San Casciano, 1321-22 | |
| Simone Martini, artista medievale di Siena, dipinse questa grande croce sagomata insieme alla sua bottega di assistenti e apprendisti. L’opera raffigura Cristo in una posizione “dolente”: con le ginocchia rivolte verso sinistra, incapaci di sostenere il peso del corpo piegato dalla sofferenza, il capo reclinato di chi ha esalato l’ultimo respiro. In alto, si legge la scritta I.N.R.I., mentre ai lati si trovano la Madonna e san Giovanni dolenti, come affacciati da due piccole finestre. Il fondo della croce è stupendamente decorato e arricchito con oro zecchino: perché usare un materiale così prezioso per un’immagine di morte? Per rendere regale e sacro il momento del sacrificio rappresentato. È come se l’artista volesse comunicarci che quella morte ha un valore incommensurabile, quel dolore non è invisibile, quel pianto è consolato, meritevole di un destino dorato. Curiosamente, la storia di quest’opera è avvolta nel mistero: non si conosce la destinazione originaria del crocifisso, sicuramente realizzato per una chiesa, né la storia che lo ha portato alla sua attuale collocazione nella cittadina di San Casciano. Tuttavia, è interessante sottolineare una caratteristica della chiesa in cui, secondo le fonti, questo crocifisso è situato almeno dal Rinascimento: è infatti la chiesa della Misericordia della città, sede dell’Arciconfraternita della Misericordia di San Casciano. L’Arciconfraternita della Misericordia era, ed è tuttora (esiste ancora in Toscana), una confraternita laica fondata da san Pietro da Verona nel XIII secolo a Firenze. Il suo scopo era compiere opere di misericordia evangelica verso i bisognosi: fin dall’inizio, si è dedicata al trasporto dei malati verso gli ospedali della città, alla sepoltura dei defunti e ad altre opere di carità. Oggi si occupa anche di assistenza domiciliare. Si comprende dunque bene il legame stretto con la nostra realtà di istituto di “ricovero e cura” e perché la presenza di questa immagine della Croce di Simone Martini sia un prezioso dono e un sostegno profondo alla nostra vocazione ospedaliera. |
4. Andrea del Castagno, Crocifissione, Affresco, 1440/41, Ospedale di Santa Maria Nuova | |
| Questo affresco fu dipinto dall’artista in quello che una volta era il monastero di Santa Maria degli Angeli di Firenze, ed è stato successivamente rimosso dalla sua sede originale. Rappresenta la Crocifissione all’interno di una cornice dipinta che imita un’architettura classicheggiante. Gesù è una figura forte, con le braccia tese e la testa reclinata: come se il dolore non l’avesse piegato. Sotto la croce si trovano Maria (che si appoggia la mano alla guancia, posizione che rappresenta il pianto addolorato), san Giovanni e santa Maddalena inginocchiata, che bacia la croce con affetto, mentre alle estremità compaiono due santi monaci: Benedetto da Norcia, fondatore del monachesimo occidentale, e Romualdo, fondatore dei monaci Camaldolesi, che abitavano il monastero. Attraverso la presenza di Romualdo, tutti gli abitanti dell’edificio sembravano invitati a fermarsi, seguire il suo sguardo e raccogliersi per un istante. Il Monastero di Santa Maria degli Angeli divenne, nell’Ottocento, parte dell’ospedale di Santa Maria Nuova di Firenze, che già esisteva dall’altra parte della strada da 600 anni: era stato fondato nel 1288 da Folco Portinari, padre della Beatrice celebrata da Dante Alighieri nella Divina Commedia. Per secoli, ha rappresentato per Firenze il principale luogo di assistenza medica della città, situato proprio in centro storico, fino all’apertura del nuovo ospedale Careggi nel Novecento. Una sorte analoga è toccata anche al nostro Ospedale San Gerardo, che ha preso il posto dell’antico ospedale gerardiano sulla riva sinistra del fiume Lambro e dell’ottocentesco Ospedale Umberto I. Questa Crocifissione crea dunque un legame simbolico tra due luoghi di cura, entrambi uniti oggi dall’Associazione ACOSI, che raccoglie gli ospedali storici italiani. |
5. Beato Angelico, Crocifissione con San Domenico, 1442 | |
| Guido di Pietro, soprannominato già dai suoi contemporanei “l’Angelico” per la grazia della sua pittura, e poi proclamato “Beato” e protettore degli artisti da san Giovanni Paolo II, che gli ha riconosciuto come miracolo proprio la sua arte, fu un pittore toscano, nato in un piccolo paese da una famiglia modesta. Fin da piccolo, le sue doti artistiche furono notate, e Guido lavorò moltissimo, come apprendista e poi come pittore, in Toscana e a Firenze, nelle botteghe di grandi maestri. Era un artista appassionato e delicato: realizzò tantissime miniature, immagini che arricchiscono i codici e i grandi libri corali, e quest’arte gli insegnò ad essere minuziosamente attento ai dettagli: tutta la sua pittura è fatta di particolari che si colgono solo avvicinandosi molto. Un fatto stupì i suoi contemporanei: già trentenne e pittore affermatissimo, entrò nel Convento di San Marco a Firenze, diventando frate Domenicano e prendendo il nome “Giovanni da Fiesole”. Nel Quattrocento fiorentino le conversioni adulte non erano rare, ma spesso il convento o il monastero erano vie scelte da persone che avevano un passato difficile o cercavano un ritiro prudente dalla vita pubblica. Mentre Giovanni, conosciuto da tutti per la sua delicatezza, rettitudine e correttezza, scelse la strada religiosa per amore e autentica conversione, suscitando scalpore per questa rinuncia alla ricchezza e alla fama. In convento ogni persona era chiamata ad un lavoro preciso, fatto per sostenere la vita comune: chi predicava, chi cucinava, chi si prendeva cura dello stabile, chi miniava e trascriveva i libri, chi lavorava al di fuori. Il priore del convento, responsabile della comunità di frati, affidò a Giovanni da Fiesole il compito di continuare ad essere se stesso, e dipingere. Sia per il convento stesso, affinché chi ci viveva avesse immagini da poter guardare, sia per committenze esterne. Questo grande affresco della Crocifissione è il primo che si vede, oggi come allora, varcando la soglia del convento: è dipinto proprio di fronte alla porta, sulla parete dove si apre la scala di accesso a tutti gli ambienti dove vivevano, pregavano e lavoravano i frati. L’Angelico dipinse questa grande crocifissione proprio sotto le volte del chiostro, in modo che fosse la prima immagine che si vedeva quando si entrava e usciva, quando si cambiava luogo, quando si andava in chiesa, quando si andava a dormire. L’affresco rappresenta san Domenico, fondatore dei frati Domenicani, che abitavano – e abitano tutt’ora – il convento, nell’atto di abbracciare la Croce su cui è appeso Gesù morente. Se si potesse vedere da vicino l’affresco, si noterebbero gli occhi socchiusi di Cristo che guarda san Domenico, e san Domenico con gli occhi arrossati dalle lacrime, rivolti verso Gesù: occhi negli occhi, si crea un muto dialogo, fatto di affetto, dono di sé e sacrificio. |
6. Gaudenzio Ferrari, Crocefissione, 1513, Santa Maria delle Grazie a Varallo Sesia | |
| Il Santuario della Madonna delle Grazie a Varallo fu fatto costruire, assieme all’annesso convento francescano, da padre Bernardino Caimi, frate Francescano di origini milanesi, tra il 1486 e il 1493, in contemporanea con l’avvio dei lavori al Sacro Monte di Varallo. Il frate viaggiò più volte in Terra Santa - un’esperienza straordinaria per l’epoca – e desiderò ricreare nella sua terra d’origine le immagini e l’atmosfera della Palestina. Santa Maria delle Grazie, a Varallo, ha l’aspetto della tipica chiesa francescana: semplice all’esterno, ricchissima negli interni, dove una parete separa la zona ad uso del convento da quella aperta al pubblico. Una parete che ospita uno dei cicli di affreschi più importanti del più celebre pittore rinascimentale di questo territorio: Gaudenzio Ferrari. Gli affreschi creano un effetto mozzafiato: raccontano, in 20 episodi, la Vita e la Passione di Cristo, su una superficie totale di 10,4 metri per 8. Dall’Annunciazione alla Resurrezione, le scene si susseguono in una semplice ma efficace sequenza cronologica, dominate dalla grande e drammatica scena della Crocifissione, che occupa più del doppio dello spazio delle altre scene e rappresenta il culmine narrativo dell’intero ciclo. È una composizione travolgente, un turbinio di personaggi, figure popolari, cavalli, angeli, cavalieri e soldati: nessuno è immobile, tutto vibra di movimento, in una scena che, più che la morte, esprime una profonda intensità di vita. Come nelle nostre corsie e nelle camere d’ospedale, in un continuo andirivieni fatto di speranza, dolore e sacrificio. |
7. Matthias Grünewald, Crocefissione, Kunsthalle, Karlsruhe, 1523-24 | |
| «A Grünewald non interessano che l’espres-sione e il movimento. La norma, la misura, le proporzioni della figura umana, non lo hanno certamente interessato molto. Le sue forme fisiche sono per lo più brutte, malaticce, impossibili o almeno fuori dall’ordinario. I volti sono asimmetrici, le proporzioni arbitrarie: questo artista non si è di sicuro lasciato turbare da ciò che è anormale». (H. A. Schmid, Il genio di Grünewald, 1911) Matthias Grünewald, pur essendo stato uno dei più importanti e originali pittori tedeschi, dotato di uno stile unico, è una figura misteriosa, quasi immaginaria. Il nome con cui oggi lo conosciamo fu inventato da un critico d’arte tedesco che, alla fine del Seicento, riscoprì un suo dipinto a Roma e da lì iniziò a seguirne le tracce, cercando di ricostruire il suo percorso e il corpus delle sue opere. Di certo è esistito, di certo si chiamava Matthias – così firma le sue tavole – ma chi era quest’uomo che inventò una pittura nuova, tormentata, sconvolgente e unica? Forse era un certo “Maestro Matthias, pittore, scultore e idraulico” – curiosa combinazione – di cui si conserva la data di morte nel registro dei cittadini della città di Halle: 1 settembre 1528. Ma ciò che davvero importa, ciò che si conosce e resta impresso, è perché: qual era lo spunto, la fonte delle sue immagini così feroci, doloranti, non eleganti ma verissime, come questa Crocifissione. Questa Crocifissione doveva essere accostata all’immagine del Trasporto della Croce, come due pagine di un libro da aprire e chiudere. Grünewald frequentava ospizi, ospedali, lazzaretti, luoghi di ricovero, e i suoi Gesù crocifissi – ne dipinse a decine – sono fatti così, “brutti così”, proprio perché chiunque tra i malati, piagato e sofferente, potesse riconoscersi in Lui. Il Cristo di Grünewald è sempre il Cristo dei poveri, colui che si è fatto simile ai più miseri tra quelli che veniva a riscattare: disgraziati, mendicanti, malati, appestati, sifilitici, sfigurati dalla malattia. È un salvatore debole in apparenza, quasi schiacciato dal buio che attornia la croce, stravolto dal supplizio, eppure con le mani tese verso il cielo, aperte, forti, vittoriose. È l’incarnazione della speranza di ogni sofferente, il compimento della profezia (Isaia 53, 2-5): «Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per provare in lui diletto. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia, era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima. Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti». |
8. Annibale Carracci, Crocifissione e Santi, 1583 | |
| L’opera era inizialmente collocata nella cappella Macchiavelli della chiesa di Nicolò di San Felice a Bologna. L’edificio fu poi distrutto durante i bombardamenti che colpirono la città nel corso della Seconda guerra mondiale, e la tela del Carracci fu provvisoriamente custodita presso la Soprintendenza di Bologna, per essere poi definitivamente destinata alla chiesa di Santa Maria della Carità, situata nelle immediate vicinanze della distrutta San Nicolò. Lo storico bolognese Carlo Cesare Malvasia, nella Felsina Pittrice (1678), afferma che il dipinto fu realizzato da Annibale all’età di diciotto anni, definendolo «la prima operazione che uscisse mai dal pennello del grand’Annibale». Secondo la sua testimonianza, la commissione sarebbe stata inizialmente affidata a Ludovico Carracci, che l’avrebbe poi ceduta al più giovane cugino a causa della modestia del compenso. Tuttavia, la veridicità di questo racconto è dubbia, soprattutto per quanto riguarda la data di esecuzione del dipinto: una pulitura effettuata negli anni Venti del Novecento ha portato alla luce, sulla superficie della tela, la data 1583, quando Annibale aveva ventitré anni. Sempre secondo Malvasia, la Crocifissione fu oggetto di aspre critiche da parte dei pittori bolognesi più anziani e affermati. Le accuse riguardavano l’eccessivo realismo, soprattutto nella figura di Cristo (definito con tono sprezzante un «facchino nudato e messo in croce»), la composizione giudicata disarmonica, la mancanza di decorum, come si riscontrerebbe nell’umilissimo san Francesco, rappresentato con i piedi callosi ben visibili, e la pennellata ritenuta troppo veloce e poco rifinita. Eppure, proprio questi aspetti sono oggi letti come segnali di una volontà precisa da parte del pittore: quella di cercare un nuovo linguaggio fondato sulla verità. Pur con qualche incertezza giovanile, l’opera mostra una forza espressiva innovativa. La composizione divide i personaggi in due gruppi, tra i quali si innalza la croce. Cristo ha un’espressione serena, gli occhi socchiusi, la testa leggermente reclinata verso sinistra. In primo piano si trovano san Francesco, inginocchiato ai piedi della croce, e Petronio, patrono di Bologna, in abito vescovile. Alle sue spalle si scorge un chierichetto che ne regge il pastorale. I due ti in primo piano finiscono per nascondere la Vergine Maria e, ancor di più, san Giovanni Evangelista, che appare quasi costretto a tirarsi per emergere dalla massa del vescovo e risultare visibile. Tutti i personaggi hanno lo sguardo rivolto a Cristo: la Croce è il fulcro visivo e spirituale della composizione, che coinvolge anche l’osservatore. A rafforzare questo effetto contribuiscono sia la frontalità dell’impianto, sia il gesto di san Giovanni, che invita lo spettatore a unirsi nell’adorazione del crocifisso. L’illuminazione viene da sinistra e inonda la parte bassa della scena, mentre dall’alto scendono le tenebre, che però non riescono ad avvolgere la figura di Cristo, isolata da un’aura luminosa di chiara origine divina. Una luce che vince l’oscurità. |
9. El Greco, Cristo in croce con due donatori, 1585-1592 | |
| Domínikos Theotokópoulos, detto “El Greco” dai suoi contemporanei europei, è stato un artista nato a Creta. Nell’isola passò almeno vent’anni della sua vita, imparando a dipingere icone sacre e iniziando a conoscere la cultura italiana e veneziana: Creta era, in quel tempo, colonia di Venezia, a differenza del resto della Grecia, dominata dagli Ottomani. Questa situazione particolare lo portò a guardare verso l’Italia piuttosto che verso il Medioriente e lo fece innamorare dell’Europa, che esplorò a lungo fino a stabilirsi in Spagna. È da lì che deriva il suo soprannome, con l’articolo spagnolo “El”. Un sonetto composto in suo onore dice “Creta gli diede la vita e i suoi pennelli, Toledo [gli diede] una patria migliore, dove comincia a raggiungere l’eternità attraverso la morte”. E così fu, e come lui viaggiò la sua pittura: nessun altro grande artista occidentale si è mosso mentalmente, come ha fatto El Greco, dal mondo piatto e simbolico delle icone bizantine alla visione della persona e del mondo della pittura rinascimentale, elegante e aristocratica, e poi verso un’arte unica, inconfondibile, vibrante. Tutto nei suoi dipinti sembra muoversi, respirare, pulsare di una vita che non si spegne mai. Niente è statico, tutto vibra. È un’arte che parla di vita, anche contemporanea. In quest’opera, Gesù - in modo eccezionale per la pittura del tempo - non è raffigurato già morto, ma sembra muoversi verso l’alto, come se volesse camminare nel cielo. I suoi occhi sono luminosi, lo sguardo rivolto in alto, come le mani, inchiodate e disponibili, il collo teso, a parlare, a chiedere: «Perché mi hai abbandonato?» come è riportato nel Vangelo. Eppure è un uomo forte, vivo, pieno di energia, grande, imponente e flessuoso. La storia stessa del dipinto è significativa. Fu commissionato al pittore dalla Confraternita della Santa Carità di Toledo nel XVI secolo, per la Cappella della Fratellanza. La Confraternita era un ente antichissimo, nato nel 1085, che si occupava di assistenza ai bisognosi, cura degli ammalati, distribuzione di cibo e di vestiti ai poveri. Di nuovo, un’opera d’arte nata in un contesto di cura che, in un certo senso “torna a casa”, essendo esposta in ospedale. Ai piedi della croce non si trovano, come di consueto, Maria e Giovanni, ma due donatori, due finanziatori del dipinto, due membri della confraternita di diversa vocazione: un chierico, assorto in preghiera e contemplazione a sinistra, vestito di bianco, e un laico, a destra, con una mano tesa, quasi a cercare una relazione viva con ciò che osserva, e a prendere parte a quel gesto di donazione. È bello notare un altro punto di contatto con l’IRCCS San Gerardo: il laico dipinto da El Greco, sulla destra, ricorda l’abbigliamento dei benefattori del nostro ospedale, spesso rappresentati nei ritratti conservati nella Quadreria. Vestito di nero, ha il collo coperto da una gorgiera, tipica dell’abbigliamento aristocratico. Era usanza dei benefattori farsi ritrarre all’interno delle opere d’arte che finanziavano o, come nella nostra Quadreria, donare un proprio ritratto: era un modo di essere partecipi, di lasciare la propria impronta, di voler ricordare ciò che avevano fatto, il bene e la bellezza costruiti con il proprio contributo. In rapporto all’opera di El Greco, presentiamo quindi il Ritratto di Giovanni Paolo Lesmi, medico e benefattore del San Gerardo, dipinto nel 1610 da un artista oggi sconosciuto. |
10. Giulio Carpioni, Crocifissione, 1648-50 | |
| La paletta con la Crocifissione di Giulio Carpioni proviene dalla chiesa di Santa Lucia a Udine, soppressa e demanializzata in epoca napoleonica, nel 1806. L’edificio, in origine parte di un importante complesso conventuale dell’ordine Agostiniano, era passato nel 1775 alle monache Francescane. Dopo l’incameramento, la tela fu assegnata in deposito alla chiesa parrocchiale di Maser, dove rimase fino al 1967, anno in cui fu ritirata e sottoposta a restauro. In assenza di documentazione diretta, per ragioni stilistiche, l’opera è stata attribuita alla prima maturità dell’artista, in un momento vicino alla realizzazione di una delle sue prime prove pubbliche: la pala con il Martirio di Santa Caterina del 1648, destinata all’omonima chiesa di Vicenza, città in cui Carpioni si era stabilito nel 1636. Giulio Carpioni interpreta la Crocifissione con grande rigore e pacatezza espressiva. La luce e le campiture cromatiche, a colori freddi e smaltati, conferiscono vita e risalto alle figure, ma tutto sembra quieto, fermo, calcolato. Cristo, ormai esanime, si staglia solitario su un cielo cupo e agitato da nubi, occupando da solo più della metà della superficie pittorica. Il bilanciamento tra le tre figure di Maria, Maddalena e san Giovanni Evangelista – tutte rivolte con lo sguardo al cielo – e il vivace gruppo dei soldati, indifferenti al dramma sacro ma intenti a giocarsi ai dadi la tunica di Cristo (Gv 19, 23-24), conferisce alla scena un’atmosfera sospesa, quasi sospesa tra due mondi. La Vergine, avvolta in un manto un tempo azzurro, segnato da ampi panneggi definiti con forza plastica, esprime con compostezza il proprio dolore, allargando le braccia verso la Croce. San Giovanni, con un insolito berretto rosso, contempla il crocifisso con espressione attonita, le labbra semiaperte e le mani giunte dietro la schiena. Anche la Maddalena, inginocchiata sulla sinistra, partecipa al dramma in modo contenuto e quasi compassato, secondo un registro espressivo misurato, coerente con l’intera costruzione narrativa del dipinto. Capita anche a chi lavora o è ricoverato qui, di provare la stessa cosa: una solitudine profonda, come di essere in un passo personale, in un momento intimo, nella lotta con la malattia. Come questo Cristo in alto, solo, quasi lontano. Ma il cielo azzurro, nella fascia bassa del dipinto, lascia presagire una speranza tanto mendicata. Che quella solitudine sia sconfitta da un abbraccio, che quel buio sia spazzato da una luce. |
11. Paul Gauguin, Il Cristo giallo, 1889 | |
| Gauguin si confronta qui con un tema religioso: la Crocifissione di Gesù. Tuttavia, mentre secondo i Vangeli il supplizio di Cristo avvenne sulla piccola altura del Golgota, a nord di Gerusalemme, l’artista compie una trasposizione spazio-temporale e riconduce l’evento alla dimensione quotidiana della Bretagna ottocentesca, regione in cui risiedeva sin dal 1886. Riprendendo il commento dello stesso Gauguin, l’opera raffigura «un Cristo pietoso e selvaggio [...] imbrattato di giallo» sullo sfondo di «una campagna affogata nel giallo». Mai descrizione fu più pertinente: le campagne bretoni, punteggiate da alberi accesi da calde sfumature rosso-arancio, si tingono di un giallo intensissimo, che si riflette nell’incarnato dello stesso Cristo, posto in primo piano e contornato da un profilo nero e verde. Per la figura di Gesù, Gauguin si ispira alle proprie fattezze e, soprattutto, a un crocifisso ligneo policromo di epoca tardo-medievale, attribuito a un artigiano minore, ammirato nella cappella di Trémalo, una frazione rurale nei pressi di Pont-Aven. Intorno alla croce si dispongono alcune contadine bretoni, abbigliate con i loro costumi tradizionali, quasi fossero le pie donne evangeliche. In questa originale reinterpretazione rustica del Crocifisso, Gauguin dà ampio spazio alla forza espressiva della linea e del colore, raggiungendo forse per la prima volta un’espressione pienamente compiuta della sua tecnica cloisonniste: l’artista non applica il colore secondo i principi del naturalismo, cioè nel rispetto dei meccanismi della percezione visiva, ma lo stende in ampie campiture omogenee, prive di chiaroscuro, delimitate da contorni netti. L’uso quasi esclusivo dei tre colori primari (giallo, blu e rosso) si accompagna a una spiccata bidimensionalità, che conferisce all’opera un ritmo decorativo affine a quello delle vetrate gotiche delle chiese bretoni, degli smalti medievali e delle stampe giapponesi, molto apprezzate da Gauguin. A coronare la composizione, geometricamente ben calibrata – l’asse centrale segue l’andamento del margine destro della croce, scandendo lo spazio pittorico – intervengono le figure, semplificate e sintetizzate con intenzione, come dimostrano le contadine, rese con una pittura essenziale e quasi primitiva. Lo stesso Gauguin definiva questo approccio stilistico “sintetismo”. Qualche anno dopo, l’artista si autoritrasse con alle spalle il Cristo giallo: poiché si servì di uno specchio, la figura di Gesù appare rovesciata, amplificando ulteriormente il legame tra sé e l’immagine del crocifisso. |
12. Marc Chagall, Crocifissione bianca, 1938 | |
| Cristo, in croce, è raffigurato al centro dell’opera circon-dato da figure che rappre-sentano l’oppressione del popolo ebraico. Ha gli occhi chiusi ed è morto. Il suo corpo bianco e privo di vita è avvolto da un tallit, lo scialle cerimoniale ebraico, stretto intorno ai fianchi. Il capo è incorniciato da un’aureola luminosa. Al sommo della croce si legge la scritta con la condanna di Cristo. Una scala corta appoggiata sulla destra suggerisce simbolicamente il legame tra cielo e terra. Un fascio di luce bianca cala dall’alto a destra, investendo la figura di Cristo. Un fuoco bianco che brucia alcuni volumi delle Sacre Scritture nasce dall’angolo in basso a destra e corre verso la Croce. Intanto un uomo scappa con un sacco di oggetti sulle spalle. Poco più in alto, un militare in divisa e stivali neri dà fuoco a una sinagoga, mentre un altro uomo cerca di mettere in salvo i rotoli della Torah. In alto, le tavole dei Dieci Comandamenti compaiono accanto a una stella di Davide, mentre i soldati dell’Armata Rossa avanzano sventolando bandiere. Nella zona superiore del dipinto, tre uomini e una donna si disperano per la distruzione intorno alla croce: due alzano le braccia in preghiera, mentre gli altri si coprono il volto in un gesto di pianto. Sulla sinistra, tre case capovolte e in fiamme evocano caos e devastazione. Tre figure fuggono dal disastro, mentre in basso alcuni profughi cercano di attraccare con una barca. In un angolo, alcuni uomini salvano una Torah arrotolata. Ai piedi della croce, una Menorah a sette braccia, con le candele accese, illumina e veglia sul corpo del Cristo crocifisso. Accanto, una madre copre il volto del figlio con la mano, cercando di proteggerlo. La “Crocifissione bianca” di Marc Chagall è una delle prime opere del Novecento a denunciare con chiarezza la persecuzione degli ebrei in Europa. Chagall, ebreo cresciuto nella Russia zarista in un contesto cristiano ortodosso spesso ostile, fonde nella figura del Cristo elementi dell’ebraismo e della tradizione cristiana. Il tallit sostituisce il perizoma tradizionale. La corona di spine è qui rimpiazzata da una fascia bianca. Sotto la scritta latina I.N.R.I., Chagall aggiunge un’iscrizione in lingua ebraica, a sottolineare la propria identità culturale. Chagall non considera Cristo come il “Figlio di Dio” secondo l’interpretazione cristiana, ma come il martire ebreo per eccellenza, vittima innocente e simbolo universale della sofferenza. La sua figura trae ispirazione dai crocifissi medievali, ma anche dai rabbini della sua infanzia, modelli di pietà e difesa dei poveri. In questo dipinto, Cristo rappresenta la comunione tra le due religioni e, al tempo stesso, l’archetipo di ogni ebreo perseguitato. Lo stile è quello tipico di Chagall: una scena simbolica, sospesa tra sogno e realtà, popolata da elementi evocativi e profondamente narrativi. Il colore è usato in modo espressivo e drammatico, soprattutto nei bianchi, nei rossi, nei verdi acidi e nelle tonalità cupe del cielo. Il linguaggio visivo è personale e visionario, ma profondamente ancorato alla storia. La sinagoga in fiamme fa riferimento agli incendi delle sinagoghe durante la Seconda guerra mondiale, ma anche alle persecuzioni del passato recente, come i pogrom tra il 1881 e il 1921 e la repressione staliniana degli anni Trenta. Infine, anche dopo la Shoah, in alcuni Paesi dell’Europa dell’Est si verificarono nuovi pogrom contro i superstiti. L’opera è quindi un grido profetico e universale contro la violenza, l’odio e l’intolleranza. Un grido di cui abbiamo davvero bisogno, di cui ci facciamo portavoce. |
13. Nicoletta Staibano, Croce di Carlo, 2024 | |
| Culmine della mostra, è la croce che l’artista Nicoletta Staibano ha voluto donare alla cappella del nostro Ospedale: la Croce di Carlo, realizzata dall’artista come dono e atto devozionale verso Carlo Acutis. È una semplice croce lignea, non imponente come le altre qui presentate, ma non per questo povera di significato. Lasciamola descrivere dalle parole dell’artista stessa, che in essa ha racchiuso tutta la stima, la devozione e l’affezione per Carlo Acutis, tradotte in opera d’arte: «Una Croce nuova, moderna, non statica, infatti non ha un braccio uguale all’altro perché Carlo ci insegna ad essere originali e non fotocopie. La croce ha come centro l’Eucaristia, il cuore della vita del Beato. Le righe nascono dai bassorilievi che stanno intorno al sarcofago di Carlo, collocato nel Santuario della Spogliazione di Assisi, dove il ragazzo andava spesso. La lettera M, evidenziata in basso, è l’iniziale di Maria Santissima, anche l’azzurro, il colore preferito di Carlo, richiama la Madre di Gesù». |